Le stesse parole, la stessa domanda di domenica scorsa. Però i destinatari non sono più i discepoli con il cuore pieno di sogni di gloria. Questa volta Gesù parla al cuore di un uomo «cieco» che sta seduto «lungo la strada a mendicare» (Mc 10,46). A lui giunge la più bella domanda che si possa ascoltare: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (10,51).
Urla
In realtà questo interessamento di Gesù viene attivato dallo stesso cieco che, «sentendo che Gesù Nazareno» nei suoi paraggi «cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”» (10,47). Il miracolo, che il Signore successivamente compie, inizia qui, a partire da questo strillo emesso senza censure, in questo boato «rivestito di debolezza» (Eb 5,2). I poveri non hanno problemi a esprimere gemiti e a formulare invocazioni. Li abbiamo noi, che apparentemente mendicanti non siamo. Noi, che le urla le mettiamo spesso a tacere, le inghiottiamo. «Molti lo rimproveravano perché tacesse» (Mc 10,48), annota scrupolosamente l’evangelista Marco. Molti, cioè i discepoli, la folla, noi. Perché l’urlo è sconveniente, denuncia un’assenza, dichiara un’ingiustizia, afferma l’attesa di Dio e non la sua presenza. Per questo tutti noi cerchiamo di rimuoverlo in fretta, perché l’urlo imbarazza e turba, denuncia e annuncia. Eppure la sua presenza pervade tutta la storia sacra contenuta nelle Scritture, così come abita — più o meno stabilmente — il cuore di ciascuno. Dalla nascita fino alla morte, le grida scandiscono la vita umana in tutte le sue stagioni.
Insistenza
Il cieco non si lascia intimorire dai rimproveri, ma grida «ancora più forte» (10,48). La verità di un grido sta nella sua forza e nella sua durata. Non basta gridare, occorre gridare con insistenza. Perché tante volte, purtroppo, non siamo veramente nelle parole che diciamo, non fino in fondo. E infatti ci stufiamo quasi subito di gridare quando la nostra vita sembra abbandonata nel deserto, ci stanchiamo di segnalare la nostra povertà quando non veniamo immediatamente soccorsi o consolati. Le poche grida che riusciamo a non censurare dentro di noi hanno le gambe cortissime e vita breve. Sono grida che si scoraggiano presto, come dice il Qoelet: «Tutte le parole si stancano e nessuno è in grado di esprimersi a fondo» (1,8). Così tiriamo a campare, ci abituiamo a rimanere nel buio di una vita mediocre: cristiani stanchi, senza voce, senza grida né di gioia né di dolore. Uomini e donne grigi e spenti, privi di sangue e passione. Quanti giorni, mesi e anni della nostra vita, si trascinano senza alcuna speranza, senza alcun desiderio, senza alcuna attesa. Come una vita che non ci appartiene, ma che purtroppo ci siamo abituati a tollerare.
Chiamate
Prima di ascoltare il grido del cieco, Gesù restituisce ai suoi discepoli la voce che hanno perduto. Dice loro: «Chiamatelo!» (Mc 10,49). Ed essi in un lampo smettono di mortificare e cominciano a esortare: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!» (10,49). Ecco la chiesa, finalmente! Ecco, il compito dei cristiani: «Indirizzare allo sfiduciato una parola» (Is 50,4). Diventare voce profetica di quello che il Signore dice ad ogni uomo: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: “Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele”» (Ger 31,7). A queste parole il cieco sembra già capace di vedere, infatti «gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù» (Mc 10,50). Il mantello, per un israelita, era indumento essenziale, diritto inalienabile. Il cieco lo getta via, perché ha incontrato qualcuno che «vale più della vita» (Sal 62,4). Accogliere la chiamata del Signore determina questo coraggio di saper lasciare le cose che ci sembravano indispensabili. Non serve più il mantello, quando capiamo che è la voce di Dio a guidare i nostri passi. Non servono più tutte le misure di sicurezza che abbiamo attivato per non lasciarci di nuovo ferire.
Di nuovo
Allora il Signore Gesù risponde al grido del cieco, con la stessa domanda appena fatta ai discepoli: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (10,51). Tutta diversa però è la risposta del povero mendicante: «Rabbunì, che io veda di nuovo!» (10,51). E così avviene: «E subito vide di nuovo». E il povero diventa discepolo: «E seguiva Gesù lungo la strada» (10,52). La salvezza è tutta qui, nella capacità di vedere nuovamente le cose. Non nella rimozione delle tenebre, non nella guarigione completa delle ferite, non nell’emendazione da tutti gli errori. Essere salvi significa credere che la realtà è accolta dalla «giusta compassione» (Eb 5,2) di un Dio che si rivela come «un padre» (Ger 31,9). Significa saper guardare le cose che ci hanno mortificato senza scappare né giudicare, volgere ancora lo sguardo sulla realtà che ci ha accecato con una speranza nel cuore. Solo quando gli occhi vedono «di nuovo», la nostra vita si muove ancora. E torna a essere un cammino «per una strada dritta» (Ger 31,9). Un «tornare», a casa «pieni di gioia» (cf. salmo resposoriale).