IIIª Domenica d’Avvento Anno B (Lc 1, 46-56)… al Cuore della Parola…

Questa terza Domenica di Avvento è generalmente nota come “Domenica Gaudete” (Gaudete è l’imperativo latino, cioè “rallegratevi!”). È il giorno in cui accendiamo la candela di colore rosa sulla corona di Avvento. Il “rosa” indica che il nostro viola penitenziale caratteristico dell’Avvento si è, per un attimo, addolcito con il bianco delle festività natalizie. Questa simbolica esprime un momento particolarmente significativo in questo tempo forte: abbiamo attraversato la metà dell’Avvento e l’avvicinarsi alla presenza di Cristo porta con sé la gioia dell’attesa.

È la gioia, infatti, che impregna tutta la liturgia della Parola perché l’attesa è ormai vicino alla fine. Non ci resta che entrare anche noi in questo clima per farlo nostro leggendo il salmo di lode della Madre del Signore, il Magnificat, e così percorrere insieme a lei l’ultimo tratto di strada che ci porta al Natale.

46 E disse Maria: “Magnifica l’anima mia il Signore

47  ed esultò il mio spirito

in Dio mio Salvatore,

48 perché guardò giù alla bassezza della sua serva.

Ecco, infatti:

da ora mi diranno beata

tutte le generazioni;

49 perché fece a me grandi cose il Potente

e santo è il suo nome;

50  e la sua misericordia, di generazione in generazione,

per quanti lo temono.

51  Fece potenza col suo braccio;

disperse gli orgogliosi

nel pensiero del loro cuore,

52 abbattè i potenti dai troni

e innalzò gli umili;

53  affamati riempì di beni,

e arricchiti mandò via vuoti.

54  Si prese Israele suo servo,

ricordarsi di misericordia!

55  Come parlò ai nostri padri,

ad Abramo e alla sua discendenza per sempre.

56 Ora Maria dimorò

con lei circa tre mesi.

E ritornò alla sua casa.

Luca è l’evangelista della preghiera. Non solo ne offre numerosi insegnamenti e raccomandazioni, ma ne mostra anche il posto centrale che occupa nella vita di Gesù e degli altri personaggi del suo Vangelo e degli Atti. Non a caso, proprio nel terzo vangelo, troviamo in apertura e in chiusura delle persone in preghiera nel tempio di Gerusalemme. Nei primi versetti incontriamo il sacerdote Zaccaria che sta celebrando l’offerta dell’incenso, mentre il popolo prega fuori (Lc 1,8-10). Nei versetti finali dell’ultimo capitolo, l’evangelista presenta i discepoli di Gesù anch’essi nel tempio di Gerusalemme in preghiera (Lc 24, 52-53). Il tema della preghiera attraversa e fa da inclusione all’opera lucana.

Oltre a presentarci uomini e donne che pregano, Luca offre pure esempi di preghiere come il Padre nostro, l’Angelus, il Gloria, l’Ave Maria, le ultime parole della compieta “Nelle tue mani, Padre,consegno il mio spirito”. Tra queste spiccano gli inni che costellano il suo vangelo: il Benedictus, il Magnificat, il Nunc dimittis. Preghiere esemplari, tanto che la Chiesa chiede di ritmare con esse le ore della giornata e tutti i giorni della nostra vita, e le propone, rispettivamente, per la preghiera delle Lodi mattutine, per la liturgia dei Vespri a sera, per la preghiera di Compieta prima di andare a dormire. Il Magnificat è quel canto che fiorisce la sera. È importante che fiorisca la sera, perché è facile cantare al mattino, ma alla sera quando si conclude la giornata è più facile imprecare. Invece il senso della giornata, della storia e della nostra storia personale vuole essere questo canto e questa danza.

Il contesto

Per leggere la poesia del nostro testo è importante rendersi conto del contesto narrativo dove è collocato. Anche per il Magnificat vale infatti ciò che è regola primaria di ogni buona lectio: occorre inquadrare il testo nel contesto per cogliere i legami che intrecciano l’insieme. Il Magnificat brilla nel vivo del racconto della visita di Maria a Elisabetta (Lc 1,39‐56). Sì, la vecchia Elisabetta – vecchia come le attese dell’uomo di trovare vita e felicità – che ha in grembo il Battista, l’ultimo dei profeti, colui che porta con sé tutta l’attesa millenaria di Israele e l’altra, una ragazza giovane, che ha in grembo l’Atteso. In queste due donne che si abbracciano si abbraccia l’attesa e l’Atteso, il desiderio e il Desiderato. Queste due donne sono presentate come l’icona di tutta la storia dell’umanità che è desiderio e attesa, rappresentate da Elisabetta che attende felicità, vita, futuro e da Maria che porta in sé il compimento di questo desiderio. È dal loro incontro che sgorgherà il canto.

Il racconto inizia in 1,39 con Maria che si alza e si mette in cammino per raggiungere la casa di Zaccaria e si conclude al v. 56 con la Vergine che riprende il cammino per far ritorno a casa sua.

Siamo, dunque, all’interno della metafora del viaggio, è il primo viaggio che Gesù compie verso Gerusalemme, perché Ain Karim, villaggio di Elisabetta e Zaccaria dista pochi Km da Gerusalemme.

Le due madri «impossibili» – una sterile, l’altra vergine – nel racconto s’incontrano ed è un incontrarsi anche dei due figli che portano nel grembo. Sappiamo che la visitazione è la reazione di Maria all’annunciazione e che il vangelo ci dice che Maria va “in fretta” dalla cugina. Si tratta di una fretta gioiosa, la fretta di chi “non vede l’ora”. Ma ci chiediamo: perché Maria va da Elisabetta? E rispondiamo: “per servirla, per aiutarla”, questa sembra essere la comune risposta anche se il vangelo non ci dice assolutamente nulla di tutto questo, si tratta infatti di una nostra congettura, certamente vera ma non completa. Sono sempre molto economici gli evangelisti nelle loro narrazioni e in questo caso Lc non si smentisce ma gl’ indizi che ci dà l’evangelista, seppur non numerosi, ci bastano per approfondire la nostra risposta!

  • Luca racconta che dopo il ritorno di Zaccaria dal tempio, Elisabetta concepì un figlio e – cosa degna di nota – si tenne nascosta per cinque mesi (Lc 1,24). Perché mai Elisabetta “liberata dalla vergogna” della sterilità si nasconde? Perché questo sottrarsi agli occhi della gente e dei curiosi? Per la vergogna di restare incinta in tarda età? Se così fosse, non sarebbe più logico nascondersi dal quinto mese in poi, quando il segno della gestazione si fa sempre più palese?

Evidentemente la ragione del nascondimento di Elisabetta non è la vergogna, ma la contemplazione. Quando Dio parla conviene non dissolvere in chiacchiere le sue meraviglie… Elisabetta non cede alla tentazione della chiacchiera, si ritrae dagli sguardi della gente per restare totalmente sotto lo sguardo di Dio. Dunque un tenersi nascosta per contemplare. Perché sottolineiamo questo? Perché Luca, evangelista della preghiera, ci sta per presentare due donne poco interessate ad aiuti materiali e a faccende da sbrigare ma donne che davanti a queste gravidanze impossibili si mettono subito in dialogo con Dio.

  • Sappiamo che Elisabetta è al sesto mese e Maria al primo. Sicuramente delle due quella più  debole e bisognosa di aiuto non è la prima ma la seconda. È più facile perdere un bambino al primo mese piuttosto che al sesto! Tra l’altro, Maria sta da lei tre mesi, dal sesto al nono, cioè fino al parto. Ma ancora una volta, se il suo intento fosse stato solo quello di dare una mano alla cugina, l’aiuto più utile sarebbe stato per i primi tre mesi dopo il parto piuttosto che gli ultimi tre prima del parto.

Purtroppo, il fatto che, nella storia della teologia, gli esegeti siano stati sempre uomini non ci aiuta per testi come questo dove bisognerebbe anche conoscere tempi e difficoltà di una gravidanza!

Dalle parole di Lc sappiamo solo che Maria va da Elisabetta e canta. Lei, salutata dall’angelo, va a salutare Elisabetta. Fa riecheggiare nella casa della cugina la gioia incontenibile di essere stata guardata piccola! Va a cantare il fatto che Dio non misura l’uomo secondo la logica del successo e del potere. Maria canta che Dio guarda le cose piccole! Elisabetta medita e Maria canta: nessun altro indizio da parte di Lc e preferiamo evitare congetture nostre per ascoltare così la pagina evangelica, con lo stupore della prima lettura senza proiettare in essa nostre precomprensioni.

Detto questo, possiamo affermare che il viaggio di Maria, in fatica e fretta, è metafora della sua fede. I sentieri tortuosi e faticosi delle montagne di Giuda sembrano indicare un percorso di vita articolato, la difficoltà e il tempo necessari per il maturare della vocazione, per la gestazione della fede che poi si trasforma in condivisione e canto di lode.

Perché il viaggio di Maria è metafora della sua fede e non solo percorso di servizio? Maria avanza nella peregrinazione della fede (LG 58) ed è beata perché crede nella parola, prima del suo realizzarsi. Maria si colloca nella schiera dei profeti d’Israele che amano la parola di Dio più ancora della sua attuazione. Abramo uomo in cammino dietro a una promessa, e quando muore invece di figli come stelle ha un solo figlio; e della terra dove scorre latte e miele possiede soltanto una grotta sufficiente per scavare due tombe, per sé e per Sara. Eppure conserva la fede.

Mosè, anche lui uomo in viaggio, muore senza poter mettere piede nella terra promessa, ma avendola solo salutata di lontano.. In questa fede sentiamo Maria come la sorella che si è fidata di Dio per sentieri impervi, la sorella che è andata avanti al buio, immagine conduttrice del nostro pellegrinaggio.

Maria ci insegna che ci sono momenti difficili nella vita, momenti in cui dubitiamo di farcela, o di credere, momenti in cui l’ombra e il dolore sembrano prevalere, momenti di assoluto scoraggiamento. In quei momenti bisogna mettersi in viaggio e andare a trovare qualcuno che, come noi, ha incontrato Dio da vicino, e parlare e danzare, e ricordarsi di tutte le cose belle che Dio fa, nella nostra e nell’altrui vita.

Il testo

Non essendo un testo narrativo, la nostra lectio si fermerà solo su alcune parole ed espressioni che chiariscono il senso dell’intero cantico.

Diciamo innanzitutto che il Magnificat non nasce nella solitudine, è inserito da Lc dentro uno spazio di affetti, nell’incontro e nell’abbraccio tra Maria ed Elisabetta. Non nasce dunque come monologo ma come dialogo. Maria, una giovane donna aperta, che sa vivere bene i suoi affetti ci assicura che anche il cerchio dei nostri affetti è uno spazio adatto alla lode di Dio.

Maria canta a Dio, con le parole stesse di Dio, come fanno i salmi, non usa parole proprie ma cuce tutte le parole di speranza che ogni sabato ha sentito nella sinagoga di Nazaret, fin da piccola. Il Magnificat è un testo composto da tessere bibliche che formano un mosaico unitario. Vi si riconosce il ricordo del cantico di Anna alla nascita di Samuele (1Sam 2,1-10), della gioia di Lia alla nascita dei suoi figli (Gen 29,32; 30,13), ma anche il linguaggio dell’esperienza dell’Esodo e i motivi del celebre canto del mare di un’altra Maria, la sorella di Aronne e di Mosè (Es 15,1-18). Maria si esprime come erede di una tradizione religiosa.

Magnifica l’anima mia il Signore:

Maria è abituata a rivolgersi a Dio con le parole dei Salmi, il suo canto presenta numerosi contatti soprattutto con i Salmi di lode. Magnificat è la prima parola del suo canto (megalynei in greco) e questo verbo di giubilo lo ritroviamo in diversi Salmi:

Magnificate (megalynate) con me il Signore

esaltiamo insieme il suo nome (Sal 34/33,4).

Loderò il nome di Dio con il canto

lo magnificherò (megalynô) con azione di grazie (Sal 69/68,31).

Esulti e gioisca chi ama la giustizia,

dica sempre: «Sia magnificato (megalynthetō) il Signore!» (Sal 35/34,27)

Magnificare letteralmente significa ‘fare grande’, dare grandezza a Dio. Ma come può la piccola creatura far grande l’Infinito? Lo può fare, se gli fa spazio in sé, se gli offre un luogo in cui radicarsi ed espandersi. Dio è piccolo o grande nella tua vita a seconda dello spazio che gli concedi, e del tempo che gli dedichi.

Noi siamo abituati a fare Dio piccolo, non solo per il ristretto spazio che gli diamo nella nostra vita ma anche in un altro senso. Facciamo Dio piccolo quando lo crediamo meschino, invidioso, giudice, geloso, tremendo, facciamo Dio a nostra immagine e somiglianza; rimpicciolire Dio vuol dire rimpicciolire sé, perché noi siamo a sua immagine. E spesse volte proiettiamo su Dio tutto il peggio che c’è in noi, tutte le nostre colpe, tutti i nostri desideri di punizione, tutti i nostri deliri di onnipotenza, tutto proiettato su Dio. Maria fa Dio grande, Dio è il grande. E più fai grande Dio più sei grande tu che sei a sua immagine e somiglianza. Il far grande Lui dilata tutte le tue possibilità. Il problema nostro dare a Dio la sua giusta dimensione.

Noi siamo centrati su noi stessi e per noi dio sono i nostri idoli, i nostri limiti, i nostri piccoli deliri, i nostri piccoli desideri, Maria invece inizia il suo canto con lo sguardo posato sulla sua vicenda personale ma non si chiude in essa, poi si allarga al popolo e va fino ad abbracciare le generazioni che verranno. Maria è capace di sentire in grande, di pensare in grande, radicata nel suo focolare domestico ma con le finestre spalancate sulla grande storia, alla intera storia della salvezza.

ed esultò il mio spirito in Dio: Esultare è, nella sua etimologia, il verbo della danza, del salto di gioia del bambino raggiunto da una bella notizia, che non sta più nella pelle. In Maria, nella prima dei credenti, la visita di Dio ha l’effetto di una musica, di una lieta energia, di una armonia tra dentro e fuori; che muove alla danza, il suo corpo diventa il salmo che canta. Mentre noi istintivamente sentiamo la vicinanza di Dio come un dito puntato, come un esame da superare, Maria sente Dio venire come un tuffo al cuore, come un passo di danza a due. Lei sa che l’angelo l’ha chiamata ‘piena di grazia’ non perché ha detto a Dio, ma perché Dio ha detto a lei, per primo. La bella notizia è questa, e muove alla danza.

perché guardò giù alla bassezza della sua serva: Soltanto nella prima strofa troviamo le “ragioni” del cantico, espresse da duplice hoti, “perché” : hoti epeblepsen, “perché ha guardato” (v. 48) ; hoti epoiesen moi, “perché fece a me grandi cose” (v. 49).

Dio guarda giù. La parola in greco significa: “guarda dall’alto in basso”. Chi è Dio per Maria? È colui che guarda giù. E guarda giù a che cosa? A questa bassezza, detta anche umiltà, la tapeinos greca. Maria si definisce come Colei che è umile, da humus, uomo. Cioè Dio guarda verso l’uomo nella sua realtà. E qual è la nostra realtà? Noi siamo polvere, eppure questa polvere è l’oggetto di tutto lo sguardo, questa polvere è l’oggetto dell’amore, del cuore della vita di Dio, partecipa pienamente della vita di Dio.

Maria si identifica con ciò che è polvere, bassezza e non ha torto se guarda soltanto alla sua situazione umana. Maria è la donna delle periferie. Nasce in Palestina, piccola regione periferica dell’immenso impero romano. Viene dalla Galilea, terra di frontiera. Donna del villaggio di Nazaret, paese mai nominato nella Bibbia: un pugno di case senza storia, senza ricordi, senza futuro. È donna in una società dove le donne hanno pochissimi diritti; una piccola donna, quasi una bambina; forse illetterata in una religione che ha il proprio centro nelle Scritture.  Per entrare nel mondo Dio ha scelto la via della periferia. Entra nel mondo dal punto più umile, dal basso, affinché nessuno si senta escluso dal suo abbraccio. Maria viene dalla periferia delle periferie, a dirci che tutti possiamo riconoscerci in lei, perché nessuno ha meno di lei e ci chiama a ripartire ciascuno dalle nostre periferie, perché Dio ci attende là dove noi non vorremmo mai essere.

Il perché allora della gioia, della danza, è perché lui guarda qui, guarda a me e io sono il punto di arrivo del suo occhio, del suo cuore, del suo amore. È quell’occhio che mi fa vivere, quell’amore personale. E tutti noi abbiamo bisogno di essere visti. E come si vede vista Maria? Si vede vista con uno sguardo infinito di amore, che raggiunge ogni abisso, ogni lontananza e che ricolma ogni vuoto.

La distanza fra il Signore e la serva, fra il Potente e la povera, fra l’Altissimo e colei che è contrassegnata dalla piccolezza, è colmata dallo sguardo che dall’alto si posa su Maria.

Tutta la storia degli atti salvifici di Dio nell’AT comincia con il fatto che egli vede la miseria degli oppressi, vede la povertà, l’umiliazione, l’oppressione del suo popolo. L’espressione Dio vede nella Bibbia significa che egli interviene nella storia, negli avvenimenti, esprime già la sua azione salvifica, dice che egli sta operando a favore di qualcuno, si prende cura, perché il suo guardare porta sempre salvezza. Nel caso di Maria lo sguardo di Dio è sinonimo del suo essere compassionevole. Per Dio la compassione non è un vago sentimento di pietà, ma sempre assunzione di responsabilità nei confronti di chi si trova nel bisogno e si tramuta in concreta sollecitudine, gesti, azioni che tendono a ridare pienezza di vita, in una parola, «salvezza». Dio dunque ha rivolto il suo sguardo su Maria (v 48a) ed ha agito, è concretamente intervenuto.

perché fece a me grandi cose il Potente: il v. 49 aggiunge come motivo della lode di Maria il fatto che Dio «ha compiuto per lei cose grandi». Il richiamo qui è ai prodigi attuati dal Signore nella storia a favore del suo popolo soprattutto al tempo dell’esodo e della liberazione dall’Egitto (Dt 10,21; 11,7; Sal 106,21; …). Il richiamo all’esodo è ben evocato anche nel v. 51: «fece potenza con il suo braccio». Il Magnificat riecheggia il canto di Mirjam la profetessa dell’esodo (l’unica Maria di cui parli l’AT) che con cembali e a ritmo di danza guida il coro delle figlie d’Israele: “Allora Maria, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un tamburello: dietro a lei uscirono le donne con i timpani, formando cori di danze” (v.20). È lei che insegna il “ritornello” del canto di vittoria: “Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato: ha gettato in mare cavallo e cavaliere!” (v. 21). È significativo che Maria collochi l’intervento di Dio nella sua vita, lungo la scia del grande evento dell’esodo. Ciò che è avvenuto – la concezione del Messia – è evento di salvezza e di liberazione. Tra l’altro, Maria sta per sperimentare sulla sua pelle l’evento della nascita di un bambino e non pochi autori legano l’evento dell’Esodo a quello della nascita. Nascere è passare da uno spazio chiuso, rassicurante ma in cui si muore, a uno spazio aperto, rischioso ma libero, e che favorisce lo sviluppo armonioso, attraverso una strozzatura della quale non si sa in anticipo se sarà vicolo cieco o passaggio. Lasciarsi spingere in avanti significa affrontare l’ignoto, assumerne il rischio. Si tratta di un passaggio pericoloso attraverso il quale il bambino crede di morire, e nel quale muore effettivamente a una certa forma di vita dipendente. Tra la morte rischiata e la morte certa la vita spinge verso quella che racchiude maggiori possibilità di sopravvivenza.

Israele lascia lo spazio chiuso nel quale è cresciuto, l’Egitto, ed entra nel deserto, luogo aperto nel quale bisogna accettare il rischio della libertà. La traversata avviene passando per un corridoio stretto e umido, un passaggio angusto in cui si procede spaventati da morire. Difficilmente si può evocare in modo più realistico la scena di una nascita! Per Israele la salvezza è una vera nascita, Dio lo libera come libera un bambino dal grembo della madre. La nascita del Messia è, in un certo senso, una nuova rinascita anche per Israele.

Fece potenza col suo braccio: a partire da qui possiamo notare un duplice movimento nel Magnificat: ascendente e orizzontale.  Il movimento ascendente ritrae la Vergine in rapporto al suo Signore e il movimento orizzontale la colloca dentro il suo popolo. La lode e la gioia proclamate nei primi versetti riguardano non soltanto lei e quanto il Signore ha operato per lei, ma anche i piccoli e gli affamati sottratti al dominio di ricchi e potenti oppressori che non sono puniti da Dio ma dal loro stesso peccato. Il canto di Maria è anche l’inno dei “poveri del Signore”, gli anawîm, che si affidavano totalmente a Dio. Irrompono nel canto e riempiono il magnificat, come hanno riempito tutta la bibbia. I poveri non hanno storia, né azioni memorabili, né archivi, e anche Maria sfugge per poco, solo per quel suo figlio, all’anonimato della storia dei poveri. Ma Dio fa storia non con i potenti e le loro azioni spettacolari, ma con piccole cose, dentro lo spazio sacro della vita. La visita di Dio non comporta la fine della povertà, non dispensa prestigio e ricchezza, ma porta gioia e canto dentro la povertà. Maria rimane nella sua povertà concreta, nel suo ruolo sociale, marginale e oscuro, eppure canta.

I tempi messianici vengono con il ribaltamento delle sorti, con il capovolgimento delle situazioni, i primi saranno gli ultimi, i potenti destituiti. Nella prima alleanza il centro era la Torà, e al centro della Torà i dieci comandamenti. Maria invece intuisce il nuovo decalogo, ma non più prescrittivo di comportamenti dell’uomo verso Dio e i fratelli, ma narrativo di un Dio che è per l’uomo.  Un altro decalogo è riportato da Luca, bellissimo, con i verbi della parabola del buon samaritano: ‘lo vide, si mosse a pietà, si curvò, fasciò, versò olio e vino, caricò, portò, si prese cura, estrasse…, fino al decimo: ‘eventualmente al mio ritorno pagherò’ (Lc 10, 30-37)..  Il Magnificat è il Vangelo che pone al centro della religione non quello che io faccio per Dio, ma quello che Dio fa per me, il sì di Dio. Al cuore del cristianesimo per Maria non è posto il mio comportamento o la mia etica, ma il comportamento di Dio. La religione del Magnificat non si fonda sul dovere, ma sul dono.

Il magnificat è il vangelo di Maria. Noi oggi non sentiamo il vangelo come una buona notizia perché le stesse chiese l’hanno imbalsamato, ne hanno fatto un breviario di etica, un deposito di dogmi. Il vangelo dovrebbe rallegrare spingere verso la felicità. È una buona notizia che non si può dare in modo arrogante, rabbioso, nemico. Ma al modo del Magnificat. Il fatto è che noi cristiani non sappiamo più dare una buona notizia. Vangelo è ripetere con santa Maria per dieci volte: ‘è lui che ha guardato, è lui che solleva, è lui che colma di beni, è lui…’, per dieci volte.

Il Magnificat ci aiuta a capire quali sono le strade che Dio preferisce, che Dio non è imparziale, tra ricchi e poveri Dio non è imparziale, tra umili e superbi fa delle preferenze…che la vera immagine di Dio non è colui che ha tutto nelle mani, ma colui che si mette nelle mani di tutti, dei poveri.

ricordarsi di misericordia:la traduzione “ricordandosi della sua misericordia” non dà ragione della forma verbale greca, che suona invece così: ‘ricordarsi di misericordia’. Si tratta di un verbo posto all’infinito, senza un legame sintattico. Sorge all’improvviso, sciolto, quasi uno slogan, il cui soggetto diventa chiunque legga o pronunci quella parola. ‘Ha soccorso Israele. Ricordarsi!’ Chi? Dio, noi, tutti, ogni lettore, ogni orante. ‘Ricordarsi di misericordia’.

Possiamo dimenticare anche tutte le altre parole. Basterà ricordare la misericordia. Maria riporta al cuore del devoto la parola della misericordia. Nella Salve Regina noi preghiamo: salve regina, Madre di misericordia. Cosa significa? Che Maria è misericordiosa verso di noi? No, è Dio il misericordioso. La lingua ebraica ha lo stesso termine per indicare misericordia e grembo materno, utero (rahamin). Noi tutti viviamo perché una donna un giorno ci ha detto il suo sì, ci ha ricevuto e accolto. Noi tutti viviamo grazie alla misericordia di una donna, grazie alla sua accoglienza. Maria è madre di misericordia perché dà misericordia a Dio, perché lo riceve nel suo grembo. Davanti a lei Dio si inchina e attende misericordia, un grembo in cui farsi carne. Maria è misericordiosa con Dio. E di questo si tratta anche per noi: di essere misericordiosi con Dio. Accoglierlo in questo Natale, perché si formi in noi e nasca in noi. Ancora adesso il Misericordioso cerca un grembo dove incarnarsi e lo cerca proprio in me, in te. La misericordia assoluta è accogliere Dio, essergli madre. Prendiamo come nostro, come scritto per noi, questo verbo del Magnificat, ricordarsi, che non ha un soggetto, che è rivolto a tutti, perché l’oblio è la radice di tutti i mali.

Dio sta soltanto là dove lo si lascia entrare. Lasciarlo entrare in noi, come una donna incinta lascia entrare e crescere una vita nuova in sé. E questa vita nuova modifica colei che la ospita, la cambia nel corpo e nel cuore. E fa sì che viva contemporaneamente due vite. Allo stesso modo il credente vive due vite, la sua e quella di Dio che lo abita, e lo lavora, lo plasma, e a poco a poco lo trasfigura in immagine somigliante

Maria sta lì, a casa di Elisabetta e Zaccaria, non solo per aiutare la cugina. Sta lì fino a quando vede compiersi la promessa fatta a Zaccaria – Zaccaria vuol dire: “Dio si ricorda” – cioè vede l’Antico Testamento che giunge al suo compimento in Zaccaria e vede colui che è il “segno” di ciò che è donato a lei. Ed è lì per dire alla cugina, rallegrati perché il tuo nome (Elisabet significa “Dio ha giurato”) ha trovato senso e compimento. Dio è fedele alla sua alleanza, in me ha rinnovato i prodigi dell’Esodo!

In questo modo il Magnificat è il canto della memoria e della fedeltà di Dio che non manda a vuoto le sue promesse.

A cura di Sr Mara Campagnolo ssc

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