Una vedova offre conforto e salvezza al profeta Elia dandogli il suo poco cibo rimasto; un’altra getta nel tesoro del tempio di Gerusalemme le due monetine che ha in tasca. Sembra che, in questa domenica, la liturgia della Parola voglia farci guardare alla vedovanza non tanto come condizione di indigenza, meritevole di attenzione e soccorso, ma come figura di una vita capace di offrirsi pienamente, affinché «tutti impariamo a donare sull’esempio di colui che ha donato se stesso» (Colletta).
Morire
Quando il profeta aumenta la misura della sua richiesta, e dopo aver chiesto dell’acqua domanda anche un pezzo di pane, la vedova di Sarèpta mostra di essere una donna abituata a fare bene i conti con la realtà, e dunque anche con la morte: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo» (1Re 17,12). Forse, proprio l’esperienza di aver già perso quanto di più caro nella vita si possa desiderare (avere) ha già strappato dal suo cuore il terrore di rimanere a mani vuote. È la stessa libertà che conduce la «vedova povera» (Mc 12,42) del vangelo a compiere un gesto che, diversamente da quelli fatti «a lungo per farsi vedere» (12,40) da parte degli scribi, conquista lo sguardo e l’ammirazione del Signore Gesù, pronto a consegnarla ai discepoli come ultima sapienza prima della sua passione: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (12,43-44).
Perdere
Queste donne, sui cui la Scrittura accende i riflettori, sono pronte a donare tutto, perché hanno già perso tutto, avendo attraversato l’esperienza della morte, senza tuttavia essere chiamate a morire in prima persona. Per questo hanno ormai raggiunto un rapporto con le cose del mondo disincantato e vero. Sanno, ormai, che la vita è dono, non possesso o conquista. La loro piccola offerta è grande e solenne perché fatta con estrema riservatezza, che è il sigillo di ogni atto di autentico amore. Nella loro ammirabile generosità, si nasconde una profonda sapienza, scavata nel tempo dal dolore e dalla solitudine. La stessa di cui parla l’autore della lettera agli Ebrei, a proposito di Cristo, il quale è entrato «nel cielo stesso» — e non «in un santuario fatto da mani d’uomo» (Eb 9,24) — non «con sangue altrui» (9,25), ma «mediante il sacrificio di se stesso» (9,26). I gesti compiuti non per farsi vedere, ma per una sorta di fedeltà al proprio cuore e ai bisogni che il cuore sa intuire, manifestano la nostra immagine e somiglianza con Dio perché rivelano la natura del suo cuore “eccentrico”, tutto e sempre sbilanciato all’esterno, incapace di individualismo e di solitudine.
Donare
La sapienza delle vedove povere — limpido riflesso di quella del Crocifisso povero — proclama silenziosamente che non è la morte a trattenere il cuore dalla sua naturale generosità. Anzi, proprio quando la nostra realtà si presenta in tutta la sua «miseria» (Mc 12,44), possiamo finalmente percepire la vita come un bene che non va difeso a oltranza, ma offerto in dono. E uscire finalmente dalla logica — questa sì, davvero misera — del “superfluo”, cha mai basta a noi e agli altri. Se rimaniamo nella paura della morte — cioè di poter fare di noi stessi un dono gratuito — la vita rimane sulle spalle come un fardello pesante, un sacrificio da ripetere «più volte» (Eb 9,25) anzi «molte volte» (9,26). Quando siamo disposti a svuotare tutto il contenuto delle tasche — a riflettori assolutamente spenti — gustiamo invece un sapore unico, «più» convincente «di tutti gli altri» (Mc 12,43) sapori della vita. Quello conosciuto dalla vedova del vangelo, che ha certamente dato tutto, perché delle due monetine che aveva poteva almeno conservarne una per sé. E non lo ha fatto.