Il cammino di Avvento si è aperto con un invito a ritrovare le promesse di bene formulate da Dio, dentro il tumulto di una vita spesso così individuale e solitaria. Per allungare, non solo il desiderio del cuore, ma anche la mano verso questo orizzonte di speranza, la Parola di Dio in questa domenica ci sospinge fuori dai soliti recinti, per fare i conti con il deserto, luogo simbolico di tutto ciò che temiamo, ma anche di quella condizione nella quale possiamo tornare a essere sensibili alla voce e alle opere di Dio.
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Lo sguardo trasognato di Baruc su Gerusalemme è una meravigliosa parola, ma difficile da ascoltare quando l’esilio dalla gioia fa pendere la bilancia verso tristezza e rassegnazione: «Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre. Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio, metti sul tuo capo il diadema di gloria dell’Eterno, perché Dio mostrerà il tuo splendore a ogni creatura sotto il cielo. Sarai chiamata da Dio per sempre: “Pace di Giustizia” e “Gloria di pietà”» (Bar 5,1-4). Questa profezia — a più di duemila anni di distanza — è tutt’altro che realizzata. Non c’è ancora pace per Gerusalemme. Non c’è giustizia per i suoi abitanti, sicurezza nei suoi confini. Come accogliere e meditare queste parole nei nostri giorni di Avvento? Forse ricordando che quando le immagini profetiche si fanno intense e, apparentemente, impossibili Dio ci sta comunicando soprattutto il suo desiderio di salvezza, che mai annulla o sovverte la lenta maturazione della nostra libertà dentro la storia. Una certa delusione o disillusione di fronte alle parole di Dio denuncia un modo ingenuo di metterci in ascolto, che tende a privilegiare sempre registri e manifestazioni di potenza, anziché lasciarsi condurre nei luoghi della povertà e delle debolezza. Scrive Luca che «nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccaìa, nel deserto» (Lc 3,1-2). La parola di Dio non “atterra” su nessuno dei potenti — su coloro che sembrano tirare le fila della vicenda umana — ma su un uomo che sta nel deserto, e grida che le cose non vanno bene, che occorre far spazio a Dio se vogliamo ristabilire giustizia e di verità. Il problema delle profezie, in un certo senso, è solo geografico. Finché le ascoltiamo sulla poltrona del nostro disimpegno o nella prigione dei nostri vizi possiamo provare solo imbarazzo o indifferenza. Quando riusciamo a tornare all’essenziale e rientriamo in contatto coi margini della nostra vita, finalmente il nostro sguardo si purifica e ritroviamo fiducia nel sogno di Dio.
Ritorno
Giovanni non dice nulla di nuovo. Ripete, con la sua voce e con la sua stessa vita, la parola con cui Isaia annunciava al popolo in esilio la possibilità di fare ritorno alla terra promessa: «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri» (3,4). Attendere il Signore significa desiderare che egli venga. E quindi preparagli la strada, come si fa quando a casa siamo in gioiosa attesa di un ospite e tutto, in breve tempo, cambia forma a causa del suo arrivo. Attendere la venuta del Signore significa essere disposti a mettere in discussione tutto: non solo ciò che è in disordine, ma anche la nostra pretesa di ordine e di completezza. I sentieri da raddrizzare non sono solo quelli delle cattive abitudini, ma anche quelli delle odiose aspettative che ci impediscono di essere, nel deserto della nostra storia personale, ricettivi e disponibili a quanto Dio, attraverso la realtà, saprà rivelarci e donarci. Il Signore, infatti, non ha alcun problema a percorrere le strade deformate del nostro peccato, quando gli permettiamo di perdonarci, non ha alcuna difficoltà a trasformare sentieri interrotti in impensabili missioni e vocazioni a cui la nostra vita può aprirsi. Il solo vero ostacolo alla sua venuta è la nostra assenza o latitanza dal deserto in cui — di fatto — ci troviamo. Dove mancano ancora cose importanti, quelle per cui vale la pena vivere. Dove i nostri progetti non si sono ancora realizzati, oppure definitivamente dissolti. Là dove — se vogliamo accettarlo — siamo nudi e veri, poveri e miseri. Però vivi, e bisognosi di una viva salvezza.
Semplicità
Nella misura in cui accettiamo di farci trovare proprio qui, l’Avvento riprende il suo corso. O, più precisamente, l’Avvento finalmente inizia, perché il suono della voce tanto attesa si fa nitido e penetra tutta la penombra del nostro cuore: «Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato» (3,5). Qualcuno in questo Avvento avrà bisogno di ridimensionarsi, di scendere da inutili piedistalli che mai danno consistenza alla vita. Qualcun altro dovrà ammettere che ci può essere ancora speranza, persino nel fondo di una tristezza, nel profondo di un’infinita attesa. Tutti abbiamo bisogno di uscire dai tortuosi giri della testa e del cuore che accartocciano la nostra vita come fosse una cosa di poco valore. C’è una voce che nel deserto ci annuncia la possibilità di tornare a una vita piena, dove i rapporti si vivono a partire dal perdono e dalla solidarietà, dalla gioia e dalla comunione. Per ascoltare questa voce dobbiamo smettere di credere al nostro cuore quando si scoraggia, dobbiamo imparare a ignorarlo quando si esalta inutilmente, dobbiamo avere il coraggio e la lucidità di abbandonare quelle strade difficili e complicate che — lo sappiamo ormai — non ci portano da nessuna parte. Sarà Dio a condurci dove noi non sappiamo ancora che esiste una vita più grande. Dove non ci siamo solo noi, ma anche tutti gli altri. L’Avvento ci chiede solo di saper, nuovamente, attendere con «vivo desiderio» (Fil 1,8) che la sua «salvezza» (Lc 3,6) possa venire non come un merito o una conquista, ma come come un dono. Un regalo a piene mani. In pieno deserto.